di Francesco Lamendola
Se n’è andato, alla fine, nel 2006, il terribile vecchio, all’età di ottantatre anni.
Filosofo prestigioso, specializzato in questioni di logica; matematico geniale; romanziere amaro ed eccentrico; critico implacabile di tutto e di tutti: del comunismo e del post-comunismo; della Russia e dell’Occidente; del totalitarismo e della democrazia; uomo contro per eccellenza, ostinato, implacabile accusatore e irriducibile derisore di ogni conformismo, di ogni pigrizia mentale, di ogni acquiescenza al potere, qualunque esso sia: tale è stato Aleksandr Zinov’ev. Se l’è portato via, ancora indomito, un tumore al cervello; ma non se n’è andato in punta di piedi, bensì ruggendo e irridendo tutte le ipocrisie e tutte le forme di demagogia.
In Occidente non se ne sono accorti in molti, perché il personaggio era talmente scomodo che si è fatto di tutto per non propagarne li pericoloso messaggio: aveva attaccato Stalin e criticato Gorbaciov, accusato Eltsin e denunciato Putin; aveva, soprattutto, messo in guardia contro la ridicola pretesa occidentale (Fukuyama e soci) che, con la caduta dell’Unione Sovietica, anche il comunismo fosse finito per sempre. «Ritornerà – aveva detto – magari in forme inusuali ed inedite»; e non già perché ne avesse nostalgia, lui che fin dal 1976 era stato costretto all’esilio a causa della pubblicazione, in Germania, del suo romanzo «Cime abissali», ma che pure, davanti alle brutture del post-comunismo in Russia, aveva fatto il tifo per Gennadij Zjuganov, leader del vecchio Partito Comunista russo.
Gli avevano tolto tutti gli incarichi universitari; lo avevano espulso dalle istituzioni sovietiche; gli avevamo perfino strappato dal petto le decorazioni al valor militare guadagnate durante la seconda guerra mondiale (era stato un valoroso pilota di aviazione); ma non erano riusciti a ridurlo al silenzio. Poi, però, una volta caduta l’Unione Sovietica (come lui aveva previsto, allorché aveva criticato la “katastrojka” gorbacioviana), l’Occidente non aveva più avuto bisogno di lui; di lui che si era mostrato subito estremamente critico verso le forme sgangherate e mafiose del neocapitalismo proliferate in Russia sulle ceneri dell’ideologia marxista-leninista e che aveva denunciato come la sua patria fosse divenuta una semplice “colonia” dell’Occidente. Di lui che, soprattutto, si era mostrato critico implacabile delle “magnifiche sorti e progressive” promesse all’intera umanità dai fautori della globalizzazione.
Per lui, c’era qualcosa di ancor peggiore, sociologicamente parlando, dell’”uomo comunista”, ed era l’”homo sovieticus”: un tipo umano che voleva unire l’ozio e il parassitismo sociale, tipico della vecchia Unione Sovietica, con lo sfrenato desiderio del “tutto e subito” della Russia eltsiniana e putiniana, dominata da innominabili cricche e da squali della finanza e da avventurieri al caviale, mentre la massa del popolo faceva ancora le code nei negozi e non era in grado di pagarsi l’affitto di una abitazione decente.
Non che il mito del “popolo” facesse molta presa in lui, critico corrosivo ed implacabile demistificatore di tutte le ideologie umanitarie e progressiste della modernità; la stessa “umanità” era, per lui, una delle più subdole e delle più esiziali invenzioni dell’Occidente.
Vittorio Strada, in un celebre articolo sul «Corriere della Sera» del 30 dicembre 1997, così riassumeva le sue idee in proposito:
«C’era una volta l’Umanità… Inventata dagli stoici, spiritualizzata dal cristianesimo, secolarizzata dall’illuminismo, l’umanità, non come specie biologica classificata tra i mammiferi, ma come entità culturale inclassificabile tra gli organismi, è giunta al suo più alto grado di sviluppo o, meglio, di progresso,che ne segna però il tramonto, già iniziato in questa fine di secolo. […] Iniziato con la lieta novella che il nostro è forse “l’ultimo secolo umano”, cui seguiranno secoli di “storia superumana o postumana”questo “romanzo sociofuturologico” [ossia «L’umanaio globale»] non è tutto tenebroso, poiché a rischiararlo qua e là intervengono squarci di nostalgiche rievocazioni del comunismo sovietico che Zinov’ev criticò non per abbatterlo ma per salvarlo. Un comunismo che egli, in una variante mostruosamente peggiorata perché totalmente razionalizzata, ritrova proprio nell’umanaio occidentale, del quale la Russia, disse crucciato Zinov’ev, è diventata una colonia…»
Ora, di “occidentalizzazione” del mondo ci aveva già parlato Serge Latouche, ma con riferimento pressoché esclusivo ai paesi del Terzo e Quarto Mondo; mentre il punto di vista di Zinov’ev è molto più interessante, perché è quello di un russo che ha visto la sua patria “occidentalizzarsi” a tappe forzate, nel giro di pochi anni o pochissimi decenni; benché il processo fosse iniziato già da alcuni secoli e si fosse accelerato con l’azione riformatrice dello zar Pietro il Grande, per non parlare della “grande” Caterina, la sovrana illuminata…
Il punto di vista di Zin’ov è più ampio e più penetrante: da russo che ha visto e vissuto il traumatico passaggio dal totalitarismo sovietico, burocratico e inefficiente, al capitalismo d’assalto e semi-mafioso, ma con le stesse classi dirigenti gattopardescamente traghettate dall’uno all’altro, egli ci aiuta ad osservare il fenomeno dell’occidentalizzazione non solo nella sua dimensione coloniale o semicoloniale, ma anche in quella, più sottile e insidiosa, della cooptazione ideologica in guanti di velluto, basata sulla seduzione consumista e sulla filosofia cialtrona e irresponsabile del “tutto e subito”.
Il grande Dostojevskij lo aveva previsto o quantomeno paventato: occidentalizzandosi, la Russia avrebbe perduto la propria anima in cambio di un piatto di lenticchie. Ma Zinov’ev non ha più nemmeno l’illusione della “santa Russia”, l’illusione di quella arcaica e patriarcale Rus’ in cui ancora Sergej Esenin, ai primi del Novecento, aveva creduto, o voluto credere, con tutto il suo palpitante e disperato amore di poeta. Ciò rende l’analisi di Zinov’ev amara, impietosa, ma lucidissima e difficilmente confutabile.
Citiamo un passaggio chiave da «L’umanaio globale» (titolo originale: «Globalnyj Celovejnik», Mosca, Tsentrpoligraf, 1997; traduzione italiana di Alexei Hazov e Anna Cau, Milano, Spirali, 1998, pp. 167-173):
«I paesi occidentali si sono strutturati storicamente in “stati nazionali”, come organizzazioni sociali di livello organizzativo relativamente superiore al resto dell’umanità, come particolare “sovrastruttura” superiore alle altre. Essi hanno sviluppato al loro interno forze e capacità dio conquista e di dominio sugli altri popoli. E il concorso delle circostanze storiche ha dato loro la possibilità di sfruttare il proprio vantaggio. Io on ravviso in questo niente di amorale e di criminale. I criteri della morale e del diritto non hanno senso se applicati ai processi storici.
L’aspirazione dei paesi occidentali a dominare il mondo circostante non è soltanto frutto di malafede o di qualche loro particolare ambito. È condizionata dalle leggi dell’essere sociale. L’influsso esercitato sull’evoluzione dell’umanità è stato contraddittorio. È stata una possente fonte di progresso. Ma è stata anche una non meno possente fonte di sciagure. Ha prodotto innumerevoli guerre sanguinose, comprese due guerre mondiali “calde” e una “fredda”. Non solo non è scomparsa col tempo, ma si è rafforzata. Ha assunto nuove forme. Tra l’altro, la conquista di altri paesi e popoli è diventata una condizione indispensabile per la sopravivenza dei paesi e dei popoli dell’Occidente. La tragedia della grande storia non consiste nel fatto che qualche uomo malvagio, rapace e stupido spinga l’umanità nella direzione sbagliata, ma nel fatto che l’umanità è costretta a muoversi in questa direzione nonostante la volontà e i desideri di uomini buoni, generosi e intelligenti.
Con l’ovestismo l’Occidente ha sviluppato al suo interno un metabolismo incredibilmente intenso. Ha bisogno di risorse naturali, di mercati di sbocco, di sfere d’investimento dei capitali, di forza lavoro a basso costo, di fonti di energia, ecc., in misura sempre crescente. Ma le possibilità sono limitate. E compaiono nuovi concorrenti, che limitano ancora di più queste possibilità fino a minacciare l’esistenza e il benessere dell’Occidente. La spinta dell’Occidente al dominio mondiale, qualsiasi veste ideologica indossi, è il bisogno vitale di conservare le posizioni raggiunte e sopravvivere in condizioni storiche rischiose. L’intero sviluppo storico induce l’Occidente a perseguire un ordine mondiale rispondente ai suoi interessi. E ha le forze per farlo. Durante la guerra fredda l’Occidente aveva elaborato una strategia politica, volta a stabilire un nuovo ordine conforme alla nuova situazione mondiale. Io l’ho denominata “occidentalizzazione” (“wetsernizzazione”).L’occidentalizzazione è l’aspirazione del’Occidente a rendere gli altri paesi simili a sé per ordinamento sociale, sistema economico e politico, ideologia, psicologia e cultura. Dal punto di vista ideologico viene presentata come una missione umanitaria, disinteressata e liberatoria dell’Occidente, che ha la sua massima espressione nello sviluppo ella civiltà e nella concentrazione di tutte le virtù concepibili. Noi siamo liberi, ricchi e felici – dice l’Occidente ai popoli da occidentalizzare – e vogliamo aiutarvi a diventare liberi, ricchi e felici. Ma la reale sostanza dell’occidentalizzazione è tutt’altra.
Lo scopo dell’occidentalizzazione è assorbire gli altri paesi nella propria sfera d’influenza, , di potere e di sfruttamento. Assorbirli non con il ruolo di partner a pari potere e diritto – è praticamente impossibile vista la disparità di fatto delle forze -, ma con quello che l’Occidente ritiene più vantaggioso per sé. Tale ruolo può soddisfare una parte di cittadini dei paesi occidentalizzati, sia oppure per breve tempo. Ma nel complesso, è un ruolo di secondo piano e ausiliario. L’Occidente ha una potenza tale da non consentire la comparsa di paesi di tipo occidentale da esso indipendenti., che minacciano il suo dominio su una parte del pianeta conquistata e, in prospettiva, sull’intero pianeta.
L’occidentalizzazione di un dato paese non è solamente un’influenza dell’occidente su di esso, non è semplicemente l’imitazione di singoli fenomeni del modo di vita occidentale, non significa utilizzare i valori prodotti dall’Occidente, non è la possibilità di viaggiare in Occidente, ecc., ma è qualcosa di molto più profondo e importante per esso. È la ristrutturazione delle sue stesse fondamenta, della sua organizzazione sociale, del sistema di governo dell’ideologia, della mentalità della popolazione. Queste trasformazioni non sono fini a se stese, ma sono un mezzo per ottenere quanto abbiamo detto prima.
L’occidentalizzazione non esclude la volontà dei paesi occidentalizzati, e neanche il desiderio, di percorrere questa via. Proprio a questo aspira l’Occidente: che la vittima predestinata si offra da sola al sacrificio, e che provi, per questo, anche riconoscenza. A tal fine è stato creato un potente sistema di seduzione e d’indottrinamento ideologico delle masse. Ma in ogni circostanza l’occidentalizzazione è unì’operazione attiva dell’Occidente, che non esclude neppure la violenza. La volontà da parte dei paesi occidentalizzabili non significa che tutta la loro popolazione accetti già questo orientamento della propria evoluzione. All’interno vi sono categorie in lotta a favore o contro l’occidentalizzazione. L’occidentalizzazione non sempre riesce a spuntarla, come, ad esempio, è successo in Iran e in Vietnam.
L’intera attività di liberazione e di civilizzazione dell’Occidente ha avuto in passato un unico scopo: la conquista del mondo per sé e non per gli altri, l’assoggettamento del pianeta ai propri interessi e non a quelli altrui. Ha trasformato tutto ciò che lo circonda, perché gli stessi paesi occidentali potessero viverci comodamente. Quando qualcuno ha cercato di ostacolarlo, non ha avuto scrupoli a ricorrere a qualsiasi mezzo. Il percorso storico del mondo è stato costellato di violenza, truffa e rappresaglia. Adesso le condizioni sono cambiate. L’Occidente è ormai diverso. Ha mutato la propria strategia e tattica. La sostanza però non è cambiata. Del resto non può essere diversamente, perché è una legge della natura. Ora, l’Occidente propugna la soluzione pacifica dei problemi, perché quella militare è pericolosa, e i metodi pacifici gli creano una reputazione di arbitro supremo e giusto. Tali metodi pacifici hanno una particolarità: sono pacifico-coercitivi. L’Occidente ha una potenza economica, propagandistica ed economica sufficiente a costringere i recalcitranti con metodi pacifici a fare ciò che gli serve. L’esperienza dimostra che i mezzi pacifici possono essere integrati da quelli militari. Per questo motivo, qualunque sia la fase iniziale dell’occidentalizzazione di questo o quel paese, si evolverà comunque in un’occidentalizzazione forzata.
Per operare l’occidentalizzazione è stata messa a punto una tattica speciale. Vengono utilizzati i seguenti provvedimenti. Gettare discredito su tutti i principali attributi dell’ordinamento sociale del paese da occidentalizzare. Destabilizzarlo. Favorire la crisi dell’economia, dell’apparato statale e dell’ideologia. Dividere la popolazione in gruppi reciprocamente ostili, disgregarla, sostenere qualsiasi movimento d’opposizione, corrompere l’élite intellettuale e gli strati privilegiati. Contemporaneamente, propagandare i pregi della vita occidentale. Incitare la popolazione a invidiare l’abbondanza occidentale. Creare l’illusione che quest’abbondanza sia raggiungibile anche da esso in brevissimo tempo se si porrà sulla via delle trasformazioni seguendo i modelli occidentali. Contagiarlo con i vizi della società occidentale, presentandoli come manifestazioni di autentica liberà individuale. Aiutare economicamente il paese solo nella misura in cui ciò favorisce la distruzione della sua economia e la rende dipendente dall’Occidente,m mentre l’Occidente appare come suo disinteressato salvatore dai mali del modello di vita recedente.
L’occidentalizzazione è una forma particolare di colonialismo, in seguito al quale nel paese colonizzato si crea un modello sociopolitico di “democrazia coloniale” (secondo la mia terminologia),. Per alcuni tratti è la continuazione della vecchia strategia coloniale dei paesi occidentali, soprattutto della Gran Bretagna. Ma nel complesso è un uovo fenomeno, tipico del mondo contemporaneo. La sua paternità può essere attribuita, a ragion veduta, agli Usa.
La democrazia coloniale non è il risultato dell’evoluzione naturale dei paesi colonizzati, in virtù delle condizioni interne e delle regole del suo ordinamento sociopolitico. È qualcosa di artificioso, imposto dall’esterno e contro le tendenze evolutive manifestatesi storicamente. È sostenuta dai metodi del colonialismo. Inoltre, il paese colonizzato viene staccato dal sistema preesistente di rapporti internazionali. Ciò si ottiene distruggendo i blocchi di paesi e disintegrando i grandi paesi, come è successo al blocco sovietico, all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia.
Il paese avulso dal precedente sistema di rapporti mantiene una parvenza di sovranità. Con esso si stabiliscono rapporti di partenariato apparentemente alla pari. Gran parte della popolazione mantiene alcuni aspetti del modo di vivere precedente. Si creano oasi economiche di modello quasi occidentale., sotto il controllo delle banche e delle compagnie occidentali, nonché imprese esclusivamente occidentali o miste. Ho usato la parola “quasi”, poiché queste oasi economiche sono solo un’imitazione dell’economia occidentale moderna.
Al paese vengono imposti attributi esteriori del sistema politico occidentale: multipartitismo, parlamento, libere elezioni, presidente, ecc. In realtà sono solo la copertura di un sistema affatto democratico, ma piuttosto dittatoriale (“autoritario”). Lo sfruttamento del paese nell’interesse dell’Occidente avviene con l’aiuto di una parte irrilevante della popolazione, che si nutre di questa funzione. Questi uomini hanno un elevato livello di vita, paragonabile a quello dei più ricchi strati dell’Occidente.
Il paese da colonizzare viene ridotto in uno stato tale che non può più funzionare autonomamente. Viene poi smilitarizzato fino a non essere più assolutamente in grado di opporre resistenza. Le forze armate servono solo a contenere le proteste della popolazione e a circoscrivere i tentativi dell’opposizione di cambiare lo status quo.
La cultura nazionale scade a un livello pietoso. Il suo posto viene occupato dai campioni più primitivi di cultura, o meglio, di pseudocultura occidentale. Alle masse vengono concessi: un surrogato della democrazia sotto forma di libertinaggio, una blanda sorveglianza da parte delle autorità, accesso ai divertimenti, un sistema di valori che affranca gli uomini dalla necessità di controllarsi e dalla morale.»
Come si vede, la posizione di Zinov’ev non è moralistica, poiché egli sgombra li terreno della storia dalla morale fin dall’inizio e sostiene (un residuo dell’hegelismo e dello stesso marxismo?) che la direzione della storia è quella che è, e pertanto che sarebbe vano deprecare certe conseguenze, una volta compresa la “necessità” delle premesse.
Ciò non toglie che la sua analisi sia lucida, penetrante, quasi spietata. Zinov’ev è un formidabile demistificatore: leggendo le sue pagine, non si può fare a meno di correre col pensiero all’Afghanistan, all’Iran, a tutti quei casi nei quali la posta in gioco del conflitto con l’Occidente è, appunto, l’occidentalizzazione, intesa come omologazione totale di quei Paesi ai valori, ai sistemi economici e finanziari, alla mentalità occidentale; ossia, allo scardinamento irreparabile dei precedenti sistemi social, economici e culturali, attuato nell’interesse di una parte minoritaria della popolazione e a danno della maggioranza di essa.
La democrazia, il parlamentarismo, non sono che specchietti per le allodole. Oppure qualcuno pensa davvero che il corrotto Kharzai sia preferibile al mullah Omar, non per l’egoistico tornaconto dell’Occidente, ma per gli interessi reali del popolo afghano? E che dire del tam-tam mediatico scatenato dall’Occidente intorno all’opposizione interna iraniana, spingendo migliaia di studenti a farsi massacrare dai Guardiani della Rivoluzione di Teheran, nell’interesse e col denaro dei servizi segreti occidentali, americani in primis?
C’è tuttavia una precisazione da fare, secondo noi, riguardo alle riflessioni sviluppate da Zinov’ev in merito al termine e al concetto stesso di “occidentalizzazione”.
Da buon russo, Zinov’ev considera “Occidente” tutto ciò che sta ad ovest della Russia, a cominciare dalla Polonia; e, d’accordo con la terminologia invalsa già da alcuni decenni, non distingue affatto tra Europa centro-occidentale e l’entità Stati Uniti-Canada; anzi, è fuori di dubbio che egli vi includa mentalmente anche l’Australia e la Nuova Zelanda.
Questa, però, è una grossolana semplificazione. Per un Italiano, un Francese o un Tedesco, “Occidente” è un termine ambiguo, che accomuna come se fossero omogenee, delle parti profondamente differenziate. Proponiamo pertanto che non si parli di “occidentalizzazione” del mondo, ma di “americanizzazione” : processo che è iniziato durante la prima guerra mondiale e che ha ricevuto la spinta decisiva durante la seconda, per poi proseguire “a tappeto” nella seconda metà del Novecento, grazie non solo al Piano Marshall, ma anche a Hollywood, al “blues”, al “jazz”, al “rock and roll”, alla televisione, alla pubblicità, a Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, alla bomba atomica, alla Coca-Cola, al chewing-gum, alla conquista della Luna, alla “gioventù bruciata”, al mito scintillante di Manhattan e di Las Vegas, alla rivolta di Berkeley.
L’Italia, per esempio: cuore della civiltà europea per almeno tre volte – con l’Impero Romano, con la Chiesa cattolica e con il Rinascimento – non è diventata “Occidente” se non a partire dalla seconda guerra mondiale: prima con i devastanti bombardamenti arerei dei “liberatori” criminali, nel 1943-45; poi con il pane bianco, le sigarette e i dollari “generosamente” profusi dagli Usa per la ricostruzione; infine con il mito del “boom” economico e la distruzione della civiltà contadina, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900.
Lo schema è sempre lo stesso: prima la seduzione culturale dell’american way of life, della musica leggera, del cinema (come è avvenuto tra le due guerre); poi l’attacco armato, brutale, spietato, scientificamente distruttivo; infine, di nuovo, l’invasione culturale, resa ancor più irresistibile dall’alone di gloria che sempre circonfonde i vincitori di turno. È lo stesso schema che abbiamo visto in atto nell’Afghanistan, dopo il 2001: come gli Afghani, anche noi abbiamo sperimentato i tre tempi: seduzione culturale; guerra e bombardamenti; invasione economico-finanziaria e nuova, definitiva ondata culturale.
Sarebbe ora di distinguere fra “Occidente” ed “Europa”. L’Europa, come giustamente affermava De Gaulle, va dall’Atlantico agli Urali. Comprende la Russia (senza la parte asiatica), di certo non comprende gli Stati Uniti e il Canada; a nostro avviso, inoltre, comprende solo in parte la Gran Bretagna. Il Canale della Manica è molto più largo di quel che non dica la geografia: fin dai tempi di Elisabetta Tudor, anzi fin dai tempi della Guerra dei Cent’Anni, per gli Inglesi l’Europa è “il continente”, una trascurabile appendice della loro inimitabile isola; per loro (ed hanno perfettamente ragione), gli Stati Uniti sono molto più vicini della Francia o dell’Olanda, in tutti i sensi; per non parlare dell’Ungheria, della Svezia o della Russia.
Loro guidano a sinistra; non si sentono veramente europei, ma isolani; l’Europa è quel continente che hanno sempre cercato di tenere diviso, indebolito, pieno di rancori, per poterlo meglio dominare finanziariamente ed economicamente.
Quando non ci sono più riusciti con le sole loro forze, a partire dal 1917, hanno chiesto aiuto ai loro nipotini americani.
Anche noi siamo stati occidentalizzati, caro Zinov’ev, nel senso di americanizzati: col bastione e con la carota; e anche noi, da ultimo, lo abbiamo fatto con zelo, con entusiasmo, addirittura con frenesia.