Alexander Zinoviev: reghiera di un ateo credente

CulturaCattolica.it, martedì 6 novembre 2007

Leonardi, Enrico

Navigando tra i blog, ci si imbatte sovente in esperienze umane drammatiche, raccontate con sincerità disarmante. E poiché le grandi domande del senso religioso affiorano continuamente, non è raro il caso in cui chi si confida parli della propria esperienza religiosa. Uno dei post più impressionanti letti recentemente racconta in termini liberatori la “solitudine dell’ateo”. Vi si descrive il senso di libertà nella “sensazione di essere solo, solo con le persone come te e come me”, nel sapere che “nessuno guarda oltre a noi”, che “possiamo contare sulle nostre forze” perché “dipende esclusivamente da noi”, “senza dover cercare un di più”, “nessun dio che vuole o attende, che giudica, che mi perdona”, perché “questo mondo è nostro e solo nostro”. La persona che sta dietro queste righe merita sicuramente un grande rispetto; non è facile conoscere la varietà di fattori e la storia che porta ad esprimere giudizi di questo tipo. Ma l’occhio, l’occhio di Dio che guarda, che è Presenza e protagonista nella Storia, a che cosa si riduce nell’esperienza sopra narrata? All’Occhio terribile e iniettato di sangue del truce Sauron, un nemico implacabile che ti scruta e ti giudica. E’ la mentalità che una canzone come “Imagine” di John Lennon ha reso giudizio diffuso:

“Immagina che non ci sia il Paradiso
prova, è facile
nessun inferno sotto,
sopra di noi solo il cielo
Immagina che tutta la gente
viva al presente…”

Perché allora un ateo come Aleksandr Zinov’ev ha scritto questa “Preghiera di un ateo credente”?

“L’han provato i ciclotroni nei laboratori,
lo dan per sicuro negli auditori:
di cromosomi ed elettroni è pieno il mondo, non c’è proprio posto per Te. Che me n’importa?
Sopravvivenze e frode del pretume.
Eppure ti scongiuro, Dio mio:
sii per me almeno qualche cosa!
Quanto vuoi debole e miserello,
non tutto-misericorde e onnisciente,
non tutto-amoroso e provvidente,
sii pur sordastro e tardo nel reagire.
Signore, mi basta ben poco,
una piccolezza, non me la negare:
per amor di Dio, sii onniveggente!
Per favore, ti scongiuro, vedi!
Vedi soltanto, semplicemente vedi,
vedi continuamente, a tutt’occhi vedi
quanto nel mondo si fa pro e contro.
D’una sola cosa ti devi occupare:
vedi ciò che faccio io – che fanno gli altri.
Son disposto a farti sconto:
se ti è difficile vedere proprio tutto,
vedi almeno di tutto un centesimo,
sii almeno per questo, Signore!
A viver senza uno che veda
più non ce la faccio. Perciò
grido a squarciagola: Padre!!
Io non prego, io esigo: sii!.
Sussurro e urlo a perdifiato:
Sii, Padre, Sii!
No, non pretendo, ti scongiuro:
Sii!!!!”

(da Cime abissali, trad. di G. Venturi, Adelphi, Milano)

Ben diverso è lo sguardo di Dio immaginato da un perseguitato, sottoposto a ingiuste torture, come Zinov’ev fu nell’URSS del comunismo: lo sguardo di un testimone, di un garante della giustizia, di una roccia della speranza. E quanta pace c’è nello sguardo della madre che rassicura il bambino, immaginato da don Giussani come emblema della familiarità con Cristo:
“Dove il bambino esprime totalmente se stesso, quando è veramente e totalmente se stesso, se non nell’istante in cui, dentro una circostanza tranquilla, dentro una circostanza gioiosa, dentro una circostanza avversa e dolorosa, guarda sua madre e c’è come una frazione di tempo in cui è come se dimenticasse tutto, in cui ciò che riempie la sua faccia, ciò che riempie la sua persona, cioè la sua consistenza è la presenza di quella donna o di quell’uomo, del padre? Ciò che caratterizza il bambino è che la sua consistenza è la presenza di un altro, di un grande, di una donna o di un uomo: quella è tutta la sua consistenza.
Nella preghiera medioevale o nella preghiera del grande Efrem il Siro, tutto si riconduce all’avere un cuore bambino. E l’avere un cuore bambino vuol dire tirare su la faccia dai propri problemi, dai progetti, dai propri difetti, dai difetti altrui, per guardare Cristo risorto. «Rialzare lo sguardo da sé a quella Presenza». È come se dovesse passare un vento a strapparci via tutto quello che siamo; allora il cuore ridiventa libero, o, meglio, diventa libero: continua a vivere nella carne, cioè sbaglia come prima («I peccati si accumulano di giorno in giorno», diceva il grande sant’Efrem), ma è come se un’altra cosa fosse entrata nel mondo. Un nuovo uomo è entrato nel mondo e, con lui, una strada nuova. «Ecco, è aperta una strada nel deserto: non la vedete?»”